Salire in cattedra
L’esperienza dell’insegnamento a Scuola, che vivo per la prima volta in quest’anno scolastico, è intensa e particolare per me, come uomo. Non sono stato padre e, anche se conduco gruppi di vario genere ormai da una ventina d’anni, devo dire che sono fortemente colpito da questa occasione che la vita mi ha presentato ed io ho còlta.
Insegno Italiano e Storia al biennio di una Scuola Superiore di Secondo Grado. Vengo da un percorso professionale nell’ambito dell’Editoria, nel quale ho lavorato per circa venticinque anni con notevoli soddisfazioni e riconoscimenti. Un mestiere, quello dell’impiegato di Redazione, che ho imparato nell’operatività del quotidiano lavorativo, a partire da una solida formazione culturale ma con l’apporto di “maestre” e “maestri” ai quali ogni buon artigiano deve inizialmente attenzione, poi stima, infine gratitudine e riconoscimento.
Ma la Scuola di Stato è tutta un’altra cosa! Dapprima vieni subissato di calendari e di incontri, di acronimi poco comprensibili (PTOF, BES, PON, etc.), di leggi e di scadenze, di registri elettronici e cartacei, di impiegati e di uffici, di passworde di procedure interne diverse per ciascun Istituto scolastico.
Poi arriva l’impatto con l’aula e i “ragazzi”! Ed in genere si tratta di “saltare su di un treno in corsa”. Nel mio caso gli studenti aspettavano un insegnante, di ruolo o supplente che fosse, da circa un mese dall’inizio dell’anno scolastico. Entri in classe e i venticinque ragazzi e ragazze ti guardano e ti scrutano: “Chi è questo?”.
E il tuo svelarti corrisponde al loro svelarsi. Devi ricordare nomi, facce, storie, curricola scolastici. Devi costruirti un progetto didattico, un programma educativo (inerente all’indirizzo e a chi hai di fronte), una griglia di valutazioni ma, soprattutto, un tuo “stile” d’insegnamento.
Non avevo quasi mai lavorato in gruppi di adolescenti ed il primo impatto è stato molto forte. Mi è arrivato in pieno petto il loro “caotico vissuto emozionale”. Un/* adolescente è una giovane donna o un giovane uomo che sta compiendo un percorso di conoscenza e definizione di se stess* e che dunque si trova in un turbinio di emozioni e contraddizioni. Un misto tra un bambino e un adulto, anzi entrambe le cose assieme.
E dunque ti “sguscia” tra le mani come un’anguilla, è inafferrabile come il mercurio, ha la memoria breve del pesciolino Dory… Devi afferrare la sua attenzione cambiando spesso tema e stile educativo, devi mischiare l’“alto” e il “basso” delle competenze culturali che ti sono state assegnate, devi infine essere curioso del loro mondo e dei loro riferimenti e gusti per non risultare un totale “alieno”.
Questo mio percorso lavorativo e umano nella Scuola è in evoluzione. Io spero che continui ad essere la mia professione in futuro. Imparo ogni giorno dai ragazzi, dai coordinatori e dai colleghi come fare e non fare. Ma soprattutto continuo a mettere in gioco parti di me e risorse che non credevo nemmeno di avere.
“L’insegnante non è un mestiere per uomini” potrei dire parafrasando il titolo di un film dei fratelli Coen. Eppure è proprio per questo che per noi uomini e per il mondo dell’educazione essere maschi ed essere insegnanti è un’opportunità che deve essere raccolta. Perché se il nostro passaggio su questa terra può lasciare una traccia, quella che posso lasciare nelle menti e nei cuori di queste giovani esistenze sento che possa essere la mia “firma” di uomo.
Me ne sono accorto con chiarezza sul pullman che ci riportava indietro dalla gita scolastica giornaliera e Torino, l’altro giorno. Fuori era ormai scesa la notte, eravamo tutti stanchi ma i ragazzi mi hanno chiesto: “E ora cosa si fa?”. Ed il loro “prof” ha cominciato ad inventare una storia delle buonanotte un po’ paurosa nella quale ognuno dei presenti aveva un ruolo da protagonista. E mi emoziona ancora oggi rivedere quegli sguardi attenti, divertiti o stupiti…
Grazie Scuola, grazie vita. Io sono pronto!