14 Febbraio 2014

L’ambizione di amare

L’ambizione di amare nasce dal cuore

 

Spesso l’esperienza umana si intreccia con quella professionale e viceversa, così è stato l’altra mattina in Tribunale, mentre assistevo due clienti in un procedimento congiunto di divorzio (rectius, cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario).

Ci trovavamo in attesa di entrare in udienza, i miei clienti (in procinto di diventare ex coniugi…) conversavano amabilmente tra loro in maniera garbata (vicini vicini, appollaiati su una panca), mentre io raccontavo a due colleghi di quindici anni più grandi di me (…separati dalle mogli) delle mie prossime nozze.

Una schizofrenia, un corto-circuito di vissuti umani, un ossimoro di sentimenti.

Ho pensato per un attimo che la differenza di età con i miei interlocutori potesse servire come da attenuante, come a dire “scusate se vi comunico che mi sposo”…al contrario, la veste professionale e la presenza tragi-comica dei miei clienti, non ha potuto far altro che rendere ancora più vistoso il mio paradosso.

Gli esperti colleghi separati hanno approfittato dell’occasione per farmi una trattazione di diritto sugli svantaggi del matrimonio, descrivendo quest’ultimo come un “plus” che complica soltanto le cose (dopo…).

Sul piano pratico-giuridico molti dei loro discorsi o aneddoti (anti-matrimonialisti) erano certamente deprimenti per un “promesso sposo” come me, comunque – per non infierire troppo – i “saggi” colleghi separati mi hanno rassicurato spronandomi a “buttarmi” in questa avventura, nonostante tutto. Grazie…

A prescindere dall’esito dei matrimoni degli amici, dei propri genitori o della propria storia coniugale (di cui non conosciamo le  sorti…sigh!), è interessante riflettere sul come ci si approccia alle relazioni affettive al giorno d’oggi.

Di solito l’instabilità lavorativa di noi giovani, così come la scarsa solidità reddituale, sono validi deterrenti per evitare il vincolo ufficiale di coppia ma quello che mi interessa di più è capire se l’istituto matrimoniale (indipendentemente dalla tipologia) abbia ancora un senso nelle relazioni tra due persone innamorate (ricomprendendo anche le esperienze matrimoniali omosessuali di altri Paesi).

Se gli impegni amministrativo-economici pedissequi al matrimonio non pesassero così tanto, siamo sicuri che molte coppie deciderebbero – allora – di sposarsi? Ne dubito fortemente.

Non ho nessun dato a disposizione per confutare questa mia sensazione, non ho verità in tasca, però penso che la scelta di molti e molte di noi, di non sposarsi, faccia riferimento ad altro.

Mi riferisco a tutte quelle condizioni che prescindono dal momentaneo, collocandosi nell’ambizioso alveo del duraturo: penso all’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia ed alla coabitazione, all’accordo sull’indirizzo della vita familiare e sulla residenza della famiglia.

Molti (o tutti) tra questi precetti normativi di tipo civilistico (che spesso coincidono con quelli del buon senso umano) possono certamente essere perseguiti ed attuati anche in costanza di fidanzamento e/o convivenza, più o meno formali: ma allora perché sposarsi?

Mi viene da pensare che i predetti “impegni” spaventino perché tutelati dalla legge (con responsabilità a lunga scadenza) e soprattutto perché in contrasto con i modelli culturali nostra società.

Ormai è in voga la “cultura del provvisorio”, del “non definitivo”.

Per un certo verso è condivisibile prendere atto che ciò che stiamo vivendo oggi (qualsiasi cosa sia) un giorno terminerà (in un modo o nell’altro), tuttavia questo esito appare ineludibile tanto per situazioni maggiormente legalizzate quanto per quelle più informali.

Quel che conta, che fa la differenza a prescindere dall’esito più o meno felice della relazione – dunque –  sembra essere l’”animus”, ovvero quella condizione dello spirito con la quale si intende vivere l’esperienza relazionale affettiva, sia essa posta “nero su bianco” o ratificata da uno sguardo reciproco.

Una condizione mentale basata sul “provvisorio” (e/o del “mettiamo le mani avanti”) probabilmente favorirà il radicamento di usi e costumi tesi al soddisfacimento “dell’io” più che del “noi”.

Dico probabilmente poiché non sono certo del viceversa.

Quello che mi chiedo è: non sarà che spesso noi giovani abbiamo paura di “ambire ad amare per sempre”? E’ questo il grande quesito che mi pongo e che estendo a voi.

Certo, i novelli sposi di oggi – osservando il “termometro” delle separazioni e divorzi – appaiono come dei “pazzi visionari” piuttosto che “gente ordinaria”, poiché disposti alla riduzione dei propri “egocentrismi” (almeno sulla carta).

Il “convivium”, al contrario, sembra davvero un duro mestiere, implicando il compromesso continuo, la ricerca continua dell’equilibrio nel disequilibrio, implica il rinunciare a qualcosa “di me” per accogliere qualcosa di “un altro/a”, anche quando non si ha proprio voglia di rinunciare.

Probabilmente se si “sceglie di amare” lo si fa  per farlo anche dopo la passione iniziale, quando la panza cresce e/o il seno cala.

In un mondo che viaggia alla velocità della luce, che propone il superfluo come diritto umano, che giudica vetusto ciò che è stato “twittato” un’ora prima, come è possibile investire ancora nel “senza scadenza”?

Lavori in corso…

Prendiamo un po’ di tempo per pensarci, senza ansia di darci una risposta definitiva, nel frattempo: “manteniamo la calma e buon San Valentino”.

 

(Gabriele Lessi)

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