Dolor y Gloria
È brutto avere pregiudizi. Ed io lo so bene. Mi sono rimbalzati intorno per buona parte della vita. Eppure, dopo tanti film melodrammatici o grotteschi che Pedro Almodóvar ci ha regalato in questi anni (dopo il picco di “perfezione” di Donne sull’orlo di una crisi di nervi che trovo la sua opera più riuscita) mi sono aperto alla visione di questa sua nuova opera, Dolor y gloria, osannata dalla critica a Cannes (palma d’oro 2019 ad Antonio Banderas) e dal pubblico nelle sale. E ne sono uscito completamente conquistato. Ed ispirato a parlarne. O scriverne. Come sto facendo ora.
In breve la storia segue un regista cinematografico spagnolo (Salvador) in crisi di creatività. O che semplicemente vive su di sé gli effetti di invecchiare, di ammalarsi ma soprattutto di fare i conti col proprio passato. Con alle spalle una madre forte e mediterranea (Jacinta), prevalentemente sola e raggiante, che lo educa, lo fa sognare e lo abbraccia forte anche quando vivono ai margini della miseria. Con un attore-icona del suo primo cinema (Alberto) che ri-incontra ormai ultrasessantenne e a cui dona una nuova opportunità artistica. Con un amore (Federico, forse quello con la “a” maiuscola) che riemerge come dal nulla e rischia di travolgere tutto…
Mai come questa volta Almodóvar sa raccontare attraverso il non-detto, attraverso il silenzio, ascoltando il ticchettio del tempo, con inquadrature ponderate e colori tanto spessi da risultare tridimensionali. Eppure quello che mi colpisce è come sia riuscito a parlare direttamente di se stesso, piuttosto che avvolgerci semplicemente con il suo “immaginario visivo”. Credo che questo sia frutto di una nuova e profonda consapevolezza di sé. Finalmente raggiunta.
La differenza di emozionalità e di resa complessiva non viene dall’apparente autobiografismo in questo film. Quanto dall’adottare un modo di raccontarsi con “realismo” dopo essersi guardato dentro con onestà, spietatezza e un po’ di amarezza. Senza autocompassione, senza compiacimento, senza vittimismi né trionfalismi. Con Dolor y Gloria, appunto, di ciò che si è vissuto fino a quel momento.
Questo film è importante nella produzione di Almodóvar. Tanto importante da non riuscire ad immaginarmi cosa potrà produrre dopo questo. Dopo una pellicola che risulta davvero una sorta di summa della sua intera cinematografia e costituisce forse il suo personalissimo testamento artistico. Che abbandona il tratto della “favolosità” del proprio essere unici (con buona pace dell’amica Porpora Marcasciano) e si apre alla “verità” del sentirsi definitivamente esseri umani.