La chimera della libertà
E’ ormai passato un mese dal rapimento delle quasi trecento studentesse nigeriane effettuato da un gruppo organizzato terrorista jihadista diffuso nel nord del predetto stato africano.
Attendevamo gli sviluppi delle ricerche attivate, prima di prendere posizione con una nostra riflessione, confidando nel fatto che in pochi giorni sarebbe potuto cambiare qualcosa.
Purtroppo non è andata così.
Vi è una tale attenzione globale verso questa vicenda che ha decisamente trasformato un fatto di cronaca africana in una questione universale: i volti della paura (delle ragazze rapite e dei genitori disperati) e quelli della violenza (il video del capo dell’organizzazione terrorista nigeriana) ci hanno riportati alla (errata) dimensione dello scontro di civiltà e religioni ben noto sin dall’11 settembre 2001.
A colpi di “hashtag” (#bringbackourgirls, dall’idea della giovanissima attivista pakistana Malala Yousafzai, vedi nostra immagine dell’articolo) si è cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale, sia quella istituzionale (Michelle Obama e Papa Francesco in testa) sia quella della società civile, sui diritti umani negati a queste ragazze.
Ciò che declina questo inquietante rapimento, rendendolo unico e paradigmatico, è il fatto che riguardi giovani donne, studentesse, strappate dai banchi di scuola da uomini armati con la minaccia di essere vendute come schiave oppure fatte sposare a forza.
La questione femminile, la questione della violenza di genere, la questione dell’emancipazione e quella della conquista della libertà sono nodi centrali in questa vicenda, così come la questione dell’islamismo radicale.
L’imposizione delle vesti islamiche alle studentesse, sotto la minaccia dei kalashnikov, è quanto di più simbolico si possa usare per proporre una sfida all’Occidente: la sfida della libertà.
In questo caso la donna è usata come simbolo per evidenziare ciò che i rapitori odiano delle libertà occidentali: libertà di educazione/istruzione, libertà di esprimere la propria personalità anche attraverso i vestiti, libertà di cercare l’emancipazione femminile col lavoro.
La barbarie della negazione dei più basilari diritti umani a queste ragazze nigeriane, da parte degli uomini dell’organizzazione terroristica, contrastano con l’uso scientifico di questi ultimi della comunicazione on-line, inviando direttamente sui nostri schermi una sfida culturale.
Ecco perché la sfida posta da quegli uomini armati ci riguarda, perché ci pone davanti alla difficile opera di dover difendere ciò in cui crediamo (se ci crediamo), ma sopratutto ciò che riteniamo alla base di una società evoluta (ammesso e non concesso che noi lo siamo…).
Come possiamo affrontare questa sfida sulle “libertà” in modo non violento verso gli altri? Come lo possiamo fare in modo persuasivo? Come lo possiamo fare in modo empatico?
Le ricerche delle studentesse attivate in Nigeria a seguito dell’invio di squadre specializzate da parte degli USA, Gran Bretagna, Francia, Cina, insieme all’Interpol, non possono bastare per cambiare la mentalità di chi crede ancora che “la libertà sia una chimera” o comunque qualcosa a cui può aspirare solo una piccola “elite” di persone.
Il rischio in questa occasione, così come in altre, è che tutto rimanga sul web e non si attivino nella nostra società occidentale politiche di vera inclusione sociale.
Un esempio di questo rischio?
Qualche mese fa scrivevo in relazione al tragico naufragio di Lampedusa (cfr. Il naufragio delle coscienze) evidenziando il rischio concreto dell’indifferenza e dell’ipocrisia (soprattutto della politica) ed oggi ci troviamo nuovamente costretti a commentare fatti di cronaca di ulteriori naufragi nel mare a largo delle coste siciliane.
Ci chiediamo quali strumenti politici comunitari siano stati messi in atto in questi mesi per evitare nuove tragedie del mare?
Siamo alla vigilia delle elezioni che rinnoveranno il Parlamento europeo e proprio in quella sede si dovranno trovare (se ci sarà la volontà…) soluzioni a questo esodo della disperazione che si consuma quotidianamente nel sud del Mar Mediterraneo.
Da queste pagine lanciamo un appello ai candidati ed alle candidate ai seggi di Strasburgo affinché, appena eletti, esercitino con perseveranza i propri poteri incalzando la Commissione europea per il controllo del suo operato in tema di prevenzione dello sfruttamento dei migranti e perequazione delle azioni di accoglienza dei flussi migratori.
Il Parlamento europeo, con i suoi 766 eurodeputati, rappresenta circa 500 milioni di abitanti ed è lì che si deve giocare la partita più importante delle “nostre libertà”, libertà di cui siamo molto più bravi a vantarci piuttosto che a proporle al mondo come valori ancora vivi, in alcuni casi ancora da conquistare.
La verità è che questa Europa, purtroppo, ha scarso peso politico-diplomatico nelle vicende umanitarie internazionali o laddove vi siano teatri di guerra.
Fino a che non diventeremo un Popolo europeo – basato su valori comuni condivisi – rimarremo a difendere i piccoli o grandi interessi (economici) delle singole nazioni europee, perdendo di vista le vere sfide valoriali che ci vengono proposte dai nemici della libertà.
(Gabriele Lessi)