La “zona franca” di internet
Lo spunto per questo articolo è dato dalla notizia, apparsa su un sito di aggiornamento professionale, circa una sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Livorno, Sezione Penale (31 dicembre 2012), avente ad oggetto il reato di diffamazione a mezzo internet, compiuto attraverso un “social network”.
Non volendo entrare nel merito del provvedimento, mi limito a prenderlo come punto di partenza per parlare dell’importanza del web e della presunzione di “zona franca” che spesso gli è, impropriamente, attribuita.
Come è noto, i “social network” presenti sulla rete internet rappresentano “piazze virtuali” in cui ci si ritrova virtualmente, condividendo informazioni, pensieri, foto, musica, immagini e quant’altro.
Certamente un luogo dove è possibile “comunicare” velocemente, soprattutto tra giovani (ma non solo), ritenendo tale luogo immune da rischi inerenti la sfera personale di chi scrive e di chi riceve il “post”, “tag”, “hashtag” altrui.
E’, quindi, naturale che in considerazione proprio di queste nuove potenzialità della rete sia necessario un giusto ed equilibrato bilanciamento tra più principi sacrosanti, come la tutela della libertà di manifestazione e circolazione del pensiero, e la tutela di altri interessi giuridicamente rilevanti, quali la dignità ed onorabilità personale… oltre al rispetto del buongusto.
Pertanto, quando si ha a che fare con giovani che non hanno strumenti culturali in tal senso, si è a rischio di trovarli incappati in fattispecie di reato, ma quel che più ci interessa oggi: in bullismo cibernetico.
E’ notizia recentissima quella del suicidio di una ragazza quattordicenne, sembra anche a causa del bullismo virtuale che subiva sul proprio profilo virtuale.
La sensazione di sgomento che assale, circa questa tragica notizia, è enorme.
Quello che più fa paura è la sensazione che, dietro ad una tastiera ed un monitor, ci sia qualcuno (nel caso di specie minorenne) che si sente un “pistolero” da Far West, coperto da una tuta antiproiettile: invulnerabile e nella possibilità di colpire chiunque, impunemente, con insulti, volgarità e vessazioni.
Come la sensazione che il mondo virtuale sia veramente virtuale, e non che rappresenti un’appendice “smaterializzata” del reale.
In questo mondo finto ci si sente liberi e forti, spesso capaci – tramite la distanza fisica – di dire ciò che a quattrocchi non si direbbe, una sorta di “zona franca” dove, al motto della “libertà di espressione”, a volte si calpesta la dignità e sensibilità altrui, oltre a consumare dei reati punibili dalla legge.
Nel caso dei minorenni il vero problema e che i genitori non sanno cosa succede sul web, non percepiscono (talvolta per distanza anagrafica e generazionale) le possibili “scorribande” che possono realizzarsi.
Ai miei tempi, e non parlo di 100 anni fa, bensì di metà anni 90, quando si era vittime di bullismo scolastico, la campanella dell’ultima ora rappresentava la “via di fuga” momentanea per sfuggire rapidamente dal bullo di turno…fino al giorno dopo.
Le vessazioni di una volta erano spesso comprese dai genitori, che, a loro volta, ne avevano subite della stessa tipologia e quindi potevano individuarne sintomi e cure. Oggi non è così: le potenzialità di internet sono “assorbite” molto di più dalle nuove generazioni e non da chi gli ha generati, tranne rari casi.
Ora il pericolo è quello della vessazione permanente, della gogna attraverso i messaggi pubblicati, oltre che dal computer di casa, con gli “smartphones”, che, in questo senso di “smart” (intelligente) hanno proprio poco: risultando essere “archi” immaginari da cui scagliare “frecce” a distanza.
La vittima di “mobbing dell’età evolutiva” rimane esposta al pubblico ludibrio digitale, anche senza che vi sia la presenza fisica della stessa, senza un apparente motivo, che non sia quello di sopraffare l’altro al fine di capeggiare il “branco”. Purtroppo si tratta di giovani che costruiscono le proprie sicurezze nella violenza: fisica, verbale, indiretta.
I social network, in realtà, sarebbero luoghi “neutri”, di per sé, in mano al buon senso (o meno) delle persone. Perciò non è giusto demonizzare la tecnologia, ma neanche santificarla e concederla totalmente in mano ai giovanissimi, senza averli resi coscienti dello strumento che stanno adoperando.
Quali potrebbero essere le soluzioni? Al solito: mettiamo un controllore? (per poi lamentarci della compressione dei diritti…), disattiviamo i profili virtuali dei minorenni? (inducendo gli stessi minorenni a dichiarare il falso per crearsi il proprio account…), auto-formazione dei genitori? cos’altro?…
Sarebbe molto importante chela Polizia Postale attuasse campagne di sensibilizzazione relativamente ai comportamenti “border line”, oppure veri e propri reati, che si possono realizzare sulla rete.
Sensibilizzazione indirizzata a spiegare l’importanza della segnalazione alle Autorità competenti da parte degli stessi ragazzi, relativamente ai casi di “amici” che reputino aver sconfinato il limite della normale tollerabilità dello scherzo e della “ragazzata”.
A mio modesto parere, un vero cambiamento degli “usi” potrà essere attuato solo dopo: aver riconosciuto il potere degli strumenti virtuali (nel bene e nel male), aver formato il personale delle scuole ed i genitori sul bullismo cibernetico (anche attraverso campagne di pubblicità progresso), aver responsabilizzato i minorenni sull’uso dei programmi web attraverso attività educative.
Una querela per diffamazione, o la richiesta di un risarcimento danni civile, o entrambe, non basteranno a salvaguardare la serenità di chi soffre, specie se adolescente.
Voi cosa ne pensate?
(GL per LUI)