L’intrepido
In questi giorni ho avuto modo con mia moglie, mentre facevamo zapping di intercettare un film molto interessante che ha smosso la riflessione: “L’intrepido” del 2013 di Gianni Amelio, con Antonio Albanese.
Il film parla di un uomo, un quarantenne disoccupato di nome Antonio Pane, interpretato da Albanese che cerca di vivere come può, senza mai perdere la speranza di una vita migliore. Antonio fa il “rimpiazzo”, sostituisce gli assenti in qualsiasi tipo di attività: un giorno fa il muratore, il tramviere e così via. Antonio è un uomo solo: la moglie lo ha lasciato per unirsi a un uomo con più opportunità e il figlio studia sassofono contralto al Conservatorio e cerca in qualche modo di aiutare il genitore.
Cosa questo film mi fa comprendere del mio essere maschio nella società d’oggi?
Mi fa pensare alla condizione dell’uomo di oggi, un “breadwinner model”, un genere quello maschile che sembra essere formato, relegato, plasmato solo per il mero lavoro, riprendono il concetto di “alienazione”, di Hegel e ripreso da Marx, intendendo: “diventare altro”, il “cedere ad altri ciò che è proprio”. L’operaio si sente un uomo soltanto nelle sue funzioni animali – mangiare, bere, procreare – mentre si sente un animale nel lavoro, cioè in quella che dovrebbe essere un’attività tipicamente umana.
Il film mi ha fatto pensare a questo, alla nostra condizione di maschi che in questa epoca sembriamo relegati solo al poter essere degli animali nel lavoro, senza più spazio e ne tempo per esprimere noi stessi.
Il film mi ha inoltre ricordato mio padre quando tornava a casa stanco da lavoro ma sempre pronto a dispensare battute e ottimismo quando intorno c’era solo deserto, un po’ come Antonio nel film, uomo che ogni giorno non sa in quale mansione verrà impiegato il mattino successivo. Per quanto del tutto instabile nella vita lavorativa, Antonio ha una profonda coerenza morale e continua a combattere in quello in cui crede, se pur tra mille difficoltà. Impegnandosi nel non alienarsi.