Sulle strisce. Nascita di un pregiudizio
Nota dell’Autore. Questo articolo è stato scritto ai primi di gennaio 2020. Dunque prima di qualsiasi informazione certa sulla pandemia da Covid-19 E di ogni tipo di provvedimento, preventivo o ingiuntivo da parte dello Stato italiano in merito.
È un venerdì subito prima di Natale, precisamente il 20; l’aria è frizzante e c’è una lieve pioggerella. Una delle classi nelle quali insegno Italiano e Storia in un Istituto Tecnico di Lucca, incoraggiata dalla dirigente scolastica, partecipa alla presentazione di un report “antibullismo” dell’UNESCO presso la chiesa sconsacrata di San Francesco.
Sulla via del ritorno, a due passi dalla scuola, il nostro ondivago e irregolare gruppo, si avvicina alle ampie strisce pedonali che attraversano i viali esterni alle mura, nei pressi della stazione.
Io sono in fondo alla fila ma, con la coda dell’occhio, qualcosa mi colpisce (sto chiudendo la fila degli studenti e chiacchierando di civismo con alcuni di loro) anche se non so ancora bene di cosa si tratti. I ragazzi sembrano essersi “ammassati” tutti sul lato destro, in attesa del verde.
Ponendo ancora maggiore attenzione, noto che, sul lato sinistro, sempre sul ciglio dell’attraversamento pedonale, ci sono tre figure. Hanno i tratti vagamente orientali (cinesi, coreani, giapponesi, chissà…) e, avvicinandomi, vedo che portano una mascherina bianca che copre loro naso e bocca.
Per una ragione antica, irrazionale, pur essendo ancora essi pressoché di spalle rispetto a noi, la fila dei ragazzi si è discostata da loro il più possibile…
Giorni dopo, quando il parlare e lo straparlare del Coronavirus diventò, esso sì, invasivo, ho provato a far riflettere la classe su quanto avvenuto. La maggior parte di loro, del resto, nemmeno ricordava l’episodio.
Si tratta solo di un paio di mesi fa ma, allora, di questo tema si cominciava appena ad avere notizia, con pochissime certezze e pochissimi contagi acclarati, unicamente all’estero.
Eppure da questo sento emergere una considerazione. Quanto può sorgere istintivo e subitaneo un pregiudizio? Legittimato o meno da qualcosa del quale si sa poco o niente? Quanto abbiamo direi “bisogno” di aver paura, di trovare un contagio, un nemico rispetto al quale alzare le nostre difese e rivolgere i nostri strali?
Speriamo che questa epidemia velocemente globalizzantesi sia al più presto individuata, circoscritta e resa inoffensiva. Quello che però ci potrebbe insegnare questa insolita situazione di allarmismo sociale e massmediatico è che da una cosa dobbiamo sempre e comunque difenderci; dalla generalizzazione, dalla paura del diverso da noi, dalla paura della vicinanza dell’altro.
Perché io, ad esempio, preferisco sentirmi in un continuo rischio di “contagio affettivo” (se mi consentite il lirismo) che rassegnarmi all’isolamento esistenziale verso il quale il contesto sociopolitico nel quale viviamo ci sta spingendo.
Consiglio per approfondire questo tema la lettura del bellissimo saggio di René Girard (1923-2015) “Il capro espiatorio”, scritto nel 1982, che si apre con bellissime e orrorifiche pagine sull’attribuzione agli ebrei dei contagi pestilenziali della fine del Medioevo oppure alla figura di re Edipo della pestilenza di Tebe.
Il meccanismo dell’attribuzione da parte di una società sull’orlo di una crisi economica e sociale del ruolo della vittima sacrificale ad un gruppo specifico che egli descrive non ci appare lontano, è anzi pericolosamente vicino.
Nel caso del Coronavirus, in questo volgere dal 2019 al 2020, ma non solo in questa epoca e in questo caso, verso un nemico questa volta orientale, la prossima volta… chissà.