Un percorso dedicato alle vittime di violenza – Di Nadia Clementi
Riportiamo un’importante articolo in cui si parla di LUI…
Un percorso sanitario dedicato, personalizzato e anonimo, esente da ticket, con l’assegnazione di un codice di urgenza uniforme in tutti i Pronto Soccorso regionali dove, oltre al codice di triage verrà assegnato un identificativo di Percorso (definito nell’ambito dell’organizzazione dello stesso e visibile ai soli operatori sanitari) per avviare l’assistenza immediata da parte di un’apposita équipe multidisciplinare alle donne che subiscono violenza.
È quanto prevedono le modalità operative approvate nella Conferenza Stato-Regioni il 23 novembre scorso e sulle quali si è espressa piena intesa.
Significativa è anche la data nella quale queste linee guida sono state approvate, ovvero a pochi giorni dal 25 novembre, giornata internazionale dedicata alle donne vittime di violenza.
Queste linee guida hanno molto in comune con un percorso iniziato nel lontano 2009 all’Ospedale di Grosseto (la Toscana poi, a scaglioni, è stata la prima Regione ad adottare il «Codice Rosa» con piena diffusione già nel 2014) dall’idea di una giovane donna, Vittoria Doretti, medico di Siena designata dal Corriere della Sera nella lista delle 100 donne protagoniste del 2016.
Ed è colei che ha dato vita al progetto «Codice Rosa», un percorso grazie al quale la vittima di violenza può essere accolta, ascoltata, presa in carico e dove le viene risparmiato il dolore di dover ripetere il racconto dell’abuso o violenza subiti a più operatori.
Si tratta di un percorso inter-istituzionale volto a creare delle procedure operative che consentano ai vari attori della rete di lavorare in maniera coordinata, sinergica ed omogenea.
Il viaggio del Codice Rosa parte dal Pronto Soccorso di Grosseto nel 2009, è proprio in quell’anno che Vittoria Doretti ha per la prima volta l’intuizione di un percorso dedicato che si prenda cura delle persone vulnerabili e tra queste, delle donne maltrattate o vittime di violenza sessuale.
In Pronto Soccorso è presente una stanza, cosiddetta stanza rosa, completamente anonima e che assicura il rispetto della privacy, luogo dove è possibile l’ascolto ed il dialogo tra vittima e l’operatore durante la visita.
È inoltre dotata degli strumenti che consento l’esecuzione delle visite specialistiche in loco, come il lettino ginecologico, la doccia, la toilette, i kit per i prelievi per la raccolta delle fonti di prova in caso di abuso sessuale.
Tutto ciò permette alla vittima di poter essere accolta, trattata e visitata in luogo riservato senza doversi spostare tra i vari ambulatori del Presidio Ospedaliero ed evitare ulteriori traumatismi.
Cambiano dunque i tempi nella stanza del Codice Rosa, che non sono più quelli dettati dall’emergenza clinica, ma dai tempi della persona.
Altro passaggio, fondamentale, è il collegamento dall’emergenza in pronto soccorso alla successiva presa in carico in una rete di aiuto territoriale.
Il tutto avviene dopo averne chiesto il consenso alla vittima e nel pieno rispetto della sua scelta, a prescindere dalla volontà di sporgere o meno denuncia all’autorità giudiziaria.
In ogni momento del percorso esiste il più assoluto rispetto dell’autodeterminazione della persona.
L’intuizione di Doretti è nata quando si è resa conto che i casi di violenza denunciati in questura erano numericamente maggiori di quelli riconosciuti in ospedale, dove le vittime accedevano per essere curate.
Inoltre, le capitava spesso di osservare traumi già vecchi sul corpo delle donne e casi di incidenti domestici ripetuti alla stessa persona.
Spesso accadeva che molte vittime, in attesa al pronto soccorso andassero via prima dell’intervento dei medici, lasciando i segni di violenza misconosciuti. Da qui la certezza che c’era qualcosa che non andava in ospedale, che il meccanismo di assistenza si inceppava, forse per il mancato riconoscimento, forse le vittime preferivano curarsi da sole piuttosto che esporsi a domande e dubbi da parte di chi avrebbe dovuto assisterle senza giudicarle.
Mancava, e in troppi ospedali italiani manca ancora, il personale di primo soccorso preparato a riconoscere i casi di violenza e disponibile a collaborare con colleghi e forze dell’ordine ad aiutare chi in quel momento è solo, debole e incapace di reagire.
Per questo è nato il Codice Rosa che non punta a un’eccellenza assoluta ma al fatto che dal più grande Policlinico al più piccolo Pronto Soccorso deve esserci una maggiore sensibilità e un lavoro in rete con i centri antiviolenza.
Anche in Trentino, lo scorso 2 dicembre, a Riva del Garda si è parlato delle linee guida approvate il 23 novembre durante il convegno dal titolo «Stalking, femminicidio e violenza sui minori».
Al tavolo dei relatori c’era anche la dottoressa Francesca Bagaglia, psicologa di origini senesi che lavora a Bolzano, specializzata in psichiatria, psicopatologia forense e criminologia, con una particolare sensibilità per le tematiche della violenza sulle donne.
L’abbiamo incontrata al termine del convegno per saperne di più su questo importante progetto e sui futuri o possibili sviluppi anche nella nostra Regione.
Dottoressa Fracesca Bagaglia, ci racconta meglio come è nata l’intuizione del «codice rosa»?
«Come ha ben descritto, nel pronto soccorso di Grosseto Vittoria Doretti ed il suo staff si accorsero che qualcosa non stesse funzionando a dovere. Si intuiva che la violenza sulle donne avesse una diffusione enorme rispetto ai casi che emergevano al pronto soccorso e in Questura.
«Le donne non denunciavano, avevano paura e coprivano i loro aguzzini. Un giorno, come racconta Vittoria in il magico effetto domino, libro che racconta la nascita del Protocollo, si presentò in pronto soccorso una donna che aveva bisogno di essere accolta e curata per violenza sessuale. Aveva deciso di denunciare. Era passato troppo tempo però per trovare e raccogliere tracce dello stupratore. Fu l’ennesima situazione di impotenza che diede la spinta per cambiare le cose.
«Venne istituito il percorso rosa che prevede un percorso protetto e di immediata attivazione al pronto soccorso secondo un protocollo costruito a partire dal rispetto dei bisogni della vittima. Al solo sospetto che ci si trovi di fronte ad un caso di violenza, scatta il protocollo: l’attesa massima per la vittima è di venti minuti. Si aprono le porte di una stanza protetta nella quale la donna è separata dai familiari e può, invece, rimanere con i propri figli se presenti.
«In questa stanza rosa trova immediata accoglienza e cure. Accanto alla profilassi prevista, vengono raccolte tutte le tracce biologiche e fotografati traumi e ferite fisiche che verranno conservate per un anno. Inoltre, la vittima o sospetta vittima viene accolta da personale specificatamente formato (medici, infermieri, assistenti sociali…) e viene informata su tutto ciò che il territorio può fare per sostenerla (a prescindere dalla volontà o meno di denunciare).
«Il percorso, infatti, prevede la presenza di referenti sanitari e sociali per ciascuna delle quattro aree della provincia di Grosseto in tutte le 24 ore. La rete funziona proprio così e nel 2010 questo fu davvero un enorme punto di forza. La refertazione completa è riconosciuta come valida nel metodo e nella sostanza dalla Procura (in caso vi sia l’intenzione a procedere della vittima) e le forze dell’ordine si coordinano per le possibili misure di protezione.
«Il fatto di conservare le tracce per un anno consente alla vittima di abuso di poter valutare e pensare ad una denuncia potendo recuperare tutto entro i sei mesi previsti dalle norme vigenti in materia di violenza e maltrattamento.
«Con questo sistema si protegge la donna dal dover raccontare più volte il trauma vissuto, da un punto di vista formale si garantisce inoltre, una maggiore validità delle dichiarazioni rese che non subiscono nei diversi passaggi manipolazioni spesso involontarie.
«La vittima poi è accolta direttamente da una persona preparata a farlo, ha di fronte un viso, una voce, un corpo e non deve varcare un’ennesima soglia oltre la quale non sa immaginare chi troverà ad ascoltarla.
«Infine e non per importanza, lo staff ed il centro antiviolenza formano (gratuitamente ed in tempi molto snelli) il personale dell’ospedale e del 118. Questo comporta la sensibilizzazione di un numero molto grande di persone che possono, non solo intervenire correttamente, ma intercettare anche quelle situazioni di violenza ancora non emerse.
«Le sentinelle intervengono quando scoprono segnali di violenza tra le donne con cui sono quotidianamente e normalmente in contatto, le informano, parlano loro del protocollo.
«Parlano del Protocollo anche a casa con i loro mariti, la violenza di genere diventa motivo di confronto e questo ha un enorme potere di sensibilizzazione e prevenzione. Diventa un sapere condiviso all’interno della comunità.
«Nel periodo in cui dedicai il mio tirocinio a Vittoria e alla sua squadra rimasi sorpresa proprio dalla potenza che questo Protocollo aveva sul territorio, territorio peraltro molto difficile. La provincia di Grosseto ha molte piccole frazioni montane e marittime, culturalmente ha una forte connotazione patriarcale.
«Eppure quando ci muovevamo tutti conoscevano il Protocolli, tutti si rendevano disponibili a cercare un alloggio protetto, un rifugio per le madri e spesso anche un lavoro che permettesse loro di avere un’indipendenza economica. Il protocollo aveva e ha modificato radicalmente la prospettiva con cui venivano percepite le vittime di violenza di genere.»
Nella pratica ci spiega come funziona e come può essere applicato nei Pronto Soccorsi più piccoli?
«Il protocollo può essere adottato da qualsiasi Pronto Soccorso in rete con un centro antiviolenza e con la Procura e le forze dell’ordine. Non coinvolge altre figure professionali ma si appoggia a chi nel territorio già opera nell’intervento di contrasto alla violenza e nel supporto alle vittime.
«Pertanto non presuppone costi aggiuntivi per l’Asl e le Pubbliche Amministrazioni che lo adottano e anche questo è un vantaggio enorme.
«Ogni donna che subisce violenza prima o poi finisce al Pronto Soccorso e non è un caso che sia nato proprio qui dove la sensibilità ed il coraggio di Vittoria e del suo staff hanno risposto ad un allarme sociale e al grido silente di molte donne.»
La Toscana è stata la prima regione ad adottare a pieno questa idea, può essere un modello esportabile?
«L’adozione del Protocollo si è estesa da Grosseto a tutte le Province della Toscana, negli anni è stato adottato da molte strutture ospedaliere in diverse regioni italiane.
«La squadra di Grosseto ha partecipato a pieno titolo all’elaborazione delle linee guida nazionali per le aziende sanitarie e ospedaliere in tema di denominazione Percorso per le donne che subiscono violenza.»
Tutte le regioni hanno approvato le linee guida, la Provincia Autonoma di Trento e Bolzano (che hanno la delega sulla sanità) potranno attuare queste linee guida in modo diverso? Magari più efficace?
«Indubbiamente il Protocollo Codice Rosa può essere adottato e arricchito. Stiamo parlando di un metodo di contrasto alla violenza che trae efficacia dall’essere prima di tutto un Protocollo di rete interforze. Pertanto la rete non solo può arricchirsi, ciascun attore della rete operante nel territorio per ciò che è nella propria competenza professionale, ma questo è proprio auspicato. Questa impostazione garantisce un’esperienza ormai corroborata che più solo arricchirsi senza porre la questione di dover accogliere uno o l’altro progetto.
«In ogni territorio del nostro Paese, ormai da anni molti enti e istituzioni con i centri antiviolenza in prima fila, hanno portato avanti un durissimo lavoro e molti risultati eccellenti nel contrasto alla violenza di genere. Spesso è stato l’operare nell’isolamento che ha ridotto l’efficacia anche di eccellenti progetti e risorse messe in campo. Ecco perché reputo importantissimo il cambiamento di prospettiva che questo Protocollo introduce: consegna a ciascun territorio la possibilità di potenziare le proprie risorse nell’ottica di rete.
«Se penso a quanto sia importante avere una stanza dedicata nel Pronto Soccorso che consenta ad una vittima di non aspettare ore accanto al muratore con un trauma al braccio, o all’affrontare l’attesa di una visita in ginecologia accanto ad una partoriente, credo che non si possa far altro che desiderare che ciò sia possibile anche vicino a noi. A questo poi si possono aggiungere strategie efficacissime provenienti da altri approcci e da altri metodi.»
Per ottenere un grande risultato contro la violenza sulle donne, ma come la sanità può lavorare sulla prevenzione?
«La prevenzione è un punto centrale e non solo la sanità ma tutti coloro che si occupano di violenza di genere sono chiamati a dare il contributo. Precedentemente ho raccontato cosa ho visto accadere a Grosseto e molto ancora potrei dire a riguardo, ma credo che la prevenzione non sia un ambito solo sanitario. A Livorno ad esempio, ho avuto contatti con colleghi molto in gamba che hanno dato vita al progetto LUI.
Jacopo Piampiani e Gabriele Lessi, portano avanti ufficialmente dal 2011 un progetto che li vede impegnati su una riflessione critica inerente gli stereotipi del maschile. In tal senso l’Associazione LUI vuole essere un’opportunità per tutte quelle persone (di diverso orientamento politico, religioso, sessuale, sociale), che desiderano confrontarsi sulla propria idea di essere maschi nella società d’oggi.
«Pertanto anche loro hanno pensato si potesse fare di più. In questo lavoro sul maschile Jacopo e Gabriele si sono resi conto che un’importante aspetto da affrontare fosse la violenza maschile sulle donne. A tal proposito i due professionisti, il primo uno psicologo-psicoterapeuta, altro un avvocato hanno deciso di formarsi direttamente presso i primi centri europei e mondiali che affrontassero tale delicato tema, dando quindi origine al servizio P.U.M. – Programma Uomini Maltrattanti. Servizio dedicato a quegli uomini che vogliono cessare ogni loro comportamento violento.
«Per portare avanti tale difficile compito l’Associazione LUI si interfaccia con tutte le realtà territoriali. Accanto a questo potrei citare tantissimi altri progetti e mi piacerebbe ci fosse uno spazio dedicato proprio a molte di queste eccellenze, ma qui mi limito a ciò che fa parte della mia formazione come psicologa forense.»
Che ruolo gioca l’assistenza psicologica nel caso di una donna giunta all’ospedale e vittima di violenza?
«L’assistenza psicologica per una donna vittima di violenza è fondamentale perché chiedere aiuto è difficilissimo. Le pressioni psicologiche, culturali, economiche, da superare per far emergere il trauma subito sono tantissime.
«Una volta compiuto questo enorme e dolorosissimo passo, inizia un percorso nuovamente difficile e doloroso. Per la donna diventa determinante sotto molti punti di vista avere un sostegno psicologico. Questo può fare proprio la differenza.
«Chi subisce violenza spesso deve affrontare radicali cambiamenti nella propria vita: separazione, affido dei figli, cambiamenti di residenza, iter processuale, cambiamenti lavorativi. Incontra la difficoltà di essere ascoltata e creduta, spesso combatte con il giudizio negativo delle persone che la circondano, ma soprattutto deve ricostruirsi come donna perché dalla violenza è proprio l’identità della persona ad uscirne profondamente ferita.
«Tutto il processo per cui la donna prima si sente vittima e poi ha la necessità di recuperare un’immagine di sé che non sia di vittima ma di colei che riprende in mano la propria vita, che si perdona per aver permesso che tutto ciò accadesse, è delicatissimo, doloroso e lungo.
«La vittima corre il rischio di fermarsi prima, di non riuscire a fronteggiare i cambiamenti in ogni aspetto saliente della vita, pertanto un affiancamento qualificato che le consenta di sorreggersi mentre ricostruisce le fondamenta di sé è essenziale per la sua rinascita e per prevenire tutti quegli stati psicopatologici che possono subentrare a seguito del trauma.»
Stalking e femminicidio sono spesso l’uno la diretta evoluzione dell’altro, quali le forme legali per fermare il fenomeno?
«Da psicologa rimango fedele alla mia formazione e rimando ai colleghi avvocati una corretta e approfondita informazione in merito. Posso però dire che le leggi e le tutele legali ci sono, ma affinché possano funzionare bene occorre chiedere aiuto, refertare e produrre tracce di quanto accaduto.
«Molto è stato fatto proprio a Grosseto, ma occorre fare alcuni passi in più. Per molte donne è impensabile pensare di produrre una certificazione sul danno esistenziale subito. È difficile pensarlo, e spesso è troppo oneroso permettersi un professionista privato.
«Occorre lavorare ancora molto sulla cultura del ruolo sociale maschile e del ruolo maschile in relazione con il femminile. Occorre infine, lavorare sul femminile perché ancora troppe donne cadono nel tranello del giudicare le scelte di altre donne perdendo di vista il ruolo del maschio.
«Il caso Weinstein e di Asia Argento la racconta lunga. Qualunque sia il motivo per far emergere un abuso dopo tanto tempo, rimane il fatto di una proposta indecente che mai dovrebbe essere posta a nessuno. È la premessa che è di per sé erronea che non può che produrre sofferenza, in ogni caso.
«Dico questo perché è lo stato di diritto del femminile che deve essere tutelato, riconosciuto e protetto. Ogni giorno incontro e ascolto adolescenti e giovani donne osservo che, rispetto ai decenni del passato prossimo, la cultura di genere ha fatto passi indietro.
«Dobbiamo riappropriarci di una maggiore consapevolezza e, da donne, costruire un’alleanza più forte con le giovani generazioni perché il diritto sia abitato. Per fortuna il reato di stalking non è più sanabile con una condotta riparatoria (risarcimento) ma non possiamo continuare ad aspettarci che le norme e la giurisprudenza siano un traino per la costruzione sociale, da sole le leggi non tutelano.
«Dobbiamo imparare ad abitarle, dobbiamo essere dalla parte della civiltà e dei diritti umani senza timore. Perché ciò possa realizzarsi è fondamentale condividere con l’universo maschile un’idea propositiva di come vorremmo la nostra società, di come le relazioni possano essere paritarie e dei vantaggi che tutto questo comporta.
«Noi siamo donne e siamo forti nell’amore e nel dialogo: questo possiamo mettere in gioco. L’amore che non è accettazione indiscriminata ma amore del confronto, del dialogo e del rispetto, dell’esempio.»
Nadia Clementi – n.clementi@ladigetto.it
dott.ssa Francesca Bagaglia – f.bagaglia@gmail.com
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